lunedì 21 marzo 2016

Si può ancora dire Dio? -  Mimmo Armiento - Ed. Narcissus

Si può ancora dire Dio?


 Mimmo Armiento

 Ed. Narcissus



Mimmo Armiento si è formato a Padova, vive e lavora a Manfredonia come psicologo psicoterapeuta. Propone una visione dell'origine dell'uomo che non può derivare dal caos del big bang o dalla naturale selezione della specie come affermano le teorie Darwiniane. Allievo di p. Giovanni Marini ofm, ha fondato l'associazione "ingannevole come l'amore" che cura insieme a sua moglie Cinzia e ad uno staff di giovani che credono nei valori che promuove.


A dispetto del titolo Mimmo Armiento dice subito Dio, anzi confesserà al termine di avere la sensazione di aver detto Dio in ogni parola del suo saggio. Chi conosce Mimmo Armiento non può dubitare della sincerità del suo punto di vista e chi ha preso parte agli incontri di ingannevole come l'amore, riconosce subito il suo linguaggio.

Ciascuno è chiuso nei suoi schemi autoreferenziali e ciò che è vita è venirne fuori, potremmo sintetizzare, per evitare gli effetti limitanti del nostro sabotatore interno che in questo nostro personalissimo quadrato si alimenta.
Viviamo grazie ad un permesso di esistere, donatoci da una madre sufficientemente buona, ma prima di dirci di essere figli suoi, Mimmo indaga su ciò che ci ha originati davvero, da prima.


Ecco quindi una critica accesa alle teorie della Creazione come derivate da un Big Bang e delle teorie di Darwin sulla selezione naturale e quindi lo scorgere nell'ordine delle cose che compongono il nostro universo qualcosa che non può essersi determinata dal caos ma da un'intenzione primaria che ci ha voluti e della quale siamo figli prima di essere figli dei nostri genitori e del mondo intero.

Affronta la scienza nelle sue accezioni di matematica e di fisica e nei suoi paradigmi di "dimostrazione" argomentando compiutamente sui limiti che si frappongono nella ricerca allorquando si elevano a "legge" i paradigmi stessi, alcuni dei quali si contraddicono tra loro, altri che non dimostrano nulla oltre se stessi perché dal nulla non deriva nulla.

Nella ricerca del momento prius della nostra stessa creazione diviene quindi anche possibile comprendere se sia nato prima l'uovo o la gallina nell'intenzione che ci ha generati che è quel permesso di esistere che ci tiene in vita.

Armiento affronta i temi specifici del suo campo professionale ed esce egli stesso dai suoi schemi, da quegli schemi mentali che imprigionano, commentando le teorie di famosi autori classici.

Anche sulla convivenza degli uomini regolata dal mondo del diritto, Mimmo fa le sue osservazioni.

Finanche i principi sanciti nell'obbedienza alla legge rappresentati nella banalità del male di Hannah Arendt,che abbiamo qui recensito come cronaca di un processo, ben dimostra come, nel chiuso della propria autoreferenzialità, possano generarsi mostri, mostri di ubbidienza e di coerenza a principi assoluti che negano la stessa natura umana degli individui come persona: essere volitivo e raziocinante volto per sua natura al bene, dicevano alcuni filosofi classici.

La mente quadrata è già dotata di proprie interne rappresentazioni, ma esiste finché viene vivificata dall'innato rapporto nuziale dell'uomo con ciò che è fuori da sé stesso, nel rapporto con l'altro individuo, con il creato stesso e con il Creatore.

Essa non va a caso ma ha bisogno di confrontarsi con il mondo che esiste fuori dai propri schemi che la arricchisce, di un confronto che impedisce di cadere nell'autoreferenzialità suicida del mito di Narciso, impegnato unicamente a specchiarsi nelle acque di un fiume che rappresentava la materna accoglienza alla vita; quella madre sufficientemente buona perché un individuo scelga di vivere, come ci ricorda Mimmo Armiento.

Abbiamo goduto molto dei tratti tipici della psicoterapia applicata alla comuni contraddizioni con cui solitamente ci confrontiamo ed i racconti personali dell'autore, a volte districandoci poco agevolmente tra l'io il me ed il tu, le cui distinzioni però alla fine risultano chiare.

Mimmo Armiento svolge un percorso scientifico dai preziosi tratti umani che risulta comprensibile anche all'uomo comune nonostante la natura tecnica del lavoro di analisi sui principi della Creazione, del mondo, che sfocia nell'amore gratuito e nella specifica natura nuziale dell'essere umano con una copiosa bibliografia di riferimento che non trascura i Vangeli.

Giulio della Valle

lunedì 14 marzo 2016

Come combattere l'ansia  e trasformarla in forza - Luca Stanchieri - Ed. Newton

Come combattere l'ansia

 e trasformarla in forza


 Luca Stanchieri

 Ed. Newton



"L'ipotesi che attraversa questo libro è che l'ansia sia correlata al rapporto fra individuo e contesto, che sia un segnale che rimandi all'individuazione di obiettivi di sviluppo, e che si avvalga, sia nella sua scaturigine che nel suo superamento delle principali questioni culturali inerenti ad una  determinata epoca". (L. Stancheri)



In 21 capitoli, ciascuno suggellato da specifiche conclusioni, l'autore ci spiega che l'ansia è insita nell'uomo, che scatena una serie di reazioni primordiali che predispongono al meglio l'organismo all'immobilità, alla fuga o al contrattacco.



Essa ha garantito la sopravvivenza all'essere umano nella sua evoluzione. Oggi, le paure ed i conflitti, soprattutto quelli che si originano all'interno dell'individuo, scatenano le stesse reazioni nell'organismo anche per fronteggiare situazioni più complesse di quelle che in origine potevano affrontarsi con l'immobilità, la fuga e il contrattacco, e quindi risultano inadeguate alle esigenze dell'uomo moderno e fonte di malessere.



Resta misteriosa l'origine dell'attacco di panico, ma sicuramente lo stato di attesa che il temuto pericolo si manifesti (temuto in base alle proprie immaginazioni interne emotive e razionali o alle sollecitazioni esterne mutuate al tessuto sociale) si può definire stato di ansia ed è a volte più deleterio e defaticante delle energie richieste per affrontare il pericolo reale.



Dall'escursus storico che offre l'autore, si evince che l'ansia è una costante dell'evoluzione umana, dapprima ritenuta associata a origini etniche e razziste, poi a patologie psichiatriche, infine dettata dalle comuni difficoltà di adattamento ad una società cristallizzata in schemi rigidi (il ruolo della donna, il ruolo dell'uomo, le pulsioni sessuali, il compito dei leader).



Tali diffuse difficoltà di adattamento hanno visto l'egemonia della medicina di base nella cura delle conseguenze degli stati d'ansia con prodotti quali il Miltown, il Valium e lo Xanax che garantivano a tutti una sorta di felicità farmacologica. Più di recente l'ansia invece è conseguenza delle pressanti richieste di un mutato contesto sociale in cui, di converso, è richiesto di emergere per le proprie caratteristiche, peculiarità e vocazioni individuali: una ricerca nella quale a volte l'individuo si perde nel cercare la propria realizzazione ed il "se stesso" da mostrare al mondo. Anche ora viene proposta la felicità farmacologica, ma non più per adattarsi con l'obbedienza a schemi predefiniti bensì perché viene richiesto di essere espressione di qualcosa di nuovo e di eccellere in competitività. L'ansia rende insopportabile adattarsi ed al contempo impedisce il cambiamento; è l'insopportabilità di una situazione ed al contempo il non sentirsi in grado di cambiarla. A volte genera un ripiegamento su sé stessi come per rinunciare alla felicità accontentandosi di evitare la sofferenza mentre invece è spesso il desiderio di felicità a generarla, l'attrazione per l'altro la premessa di un amore, ecc. ecc..

Nei rapporti di lavoro (si vedano il manager ed il venditore) come in quelli affettivi (si veda chi viene costantemente tradito), dà voce al contemporaneo bisogno di differenziarsi e di appartenere ad un gruppo, ad un contesto sociale, che è tipico dell'adolescente. Si alimenta nelle paure ataviche del bambino che teme di non essere accettato e amato.

Si manifesta nell'adulto che ha dimenticato di essere stato un bambino felice, diremo, di "essere per essere", piuttosto che per rispondere ai doveri ed alle pressioni cui è sottoposto dall'esterno. 

Il timore che un insuccesso si ripeta impedisce di conseguire il successo, diventa una sorta di "paura di vincere" perché se un insuccesso può ripetersi ciò può anche non accadere più, la convinzione di non poter essere amati distrugge i rapporti d'amore, perché chi controlla l'amato alla continua ricerca del tradimento pur si sente frustrato se ciò non avviene e ciò nonostante non sopiscono i suoi sospetti. L'ansia non è segno di rassegnazione, ma è indice proprio del non riuscire ad estranearsi da sé. In tal caso, infatti, si riuscirebbe a vivere serenamente con quella tranquillità tipica di una persona anziana che pur facendosi brillare gli occhi al ricordo della sua gioventù vive con serenità, appagata, la propria condizione attuale. L'ansia, invece, è il segno evidente che lo stato ansioso-depressivo è dovuto al non essere riuscito ad adattarsi e ad estranearsi da sé stesso ed è quindi una risorsa per muovere il cambiamento. Il primo passo è accettarsi e scoprire l'ansia come sintomo di desiderio inespresso e di potenzialità represse.

La seconda parte del libro invita a riconoscere e far leva sui propri punti di forza ed offre interessanti definizioni di sentimenti quali il coraggio e l'umanità secondo le quali solo l'ansioso può avere coraggio e l'amare non è mai causa di ansia. Affrontando, come era prevedibile, un test, si evita di pretendere di correggere le proprie debolezze, a volte assimilate alla sfera della volontà, ma si propone e si invita a concentrarsi su sé stessi per riconoscere, dapprima, ed esprimere poi, secondo un piano di lavoro fatto di continui esperimenti, le proprie potenzialità.

La felicità, la socievolezza, ogni proprio obiettivo, si può raggiungere con una diversa combinazione di fattori positivi ed occorre pertanto riconoscere le proprie potenzialità e sperimentare condizioni che possano consentire il raggiungimento del proprio scopo anche durante il sopravvenire dell'ansia, sfruttandola, come detto, come stimolo positivo al cambiamento.

Può essere il mezzo per scoprire la propria vocazione, certamente facendo molta pratica, perché la creatività abbisogna di realizzazione concreta: bisogna scegliere e partire perché agire è potere ed è efficace antagonista dell'ansia anche quando convive con essa. Agire con costanza, distinguere ciò che dipende da ciò che non dipende da noi, provare la sensazione del flusso, che certamente già conosciamo, ci permette di rilassarci a recuperare energie e ripartire in modo fruttuoso verso i nostri obiettivi e di persegurli in una costante ed impraticabile pratica che mentre la persegue è già felicitá.

Curioso che in esso si faccia implicito riferimento alla lezione de "lo zen e il tiro con l'arco".

Giulio della Valle

lunedì 7 marzo 2016

Lo zen e il tiro con l'arco

Lo Zen e il tiro con l'arco
 Eugen Herrigel

 Ed. Adelphi



Dopo dieci anni di Aikido mi sono deciso a leggere questo classico che mi era stato da sempre consigliato. Non volevo mescolare alla pratica ed a quanto si evinceva dalla lezione, astruse teorie che potessero influenzare il mio percorso. Il mio percorso, la via del "do", doveva essere scalfita dalla totale fiducia nel maestro che sceglievo nuovamente quasi ogni volta che andavo a fare lezione, sia che apprendessi poco, sia che apprendessi molto. La lettura è intervenuta dopo che un'amica mi ha ricordato di averle commentato anni prima la visione di "Kung Fu Panda" affermando che l'orso è tondo e si muove scaltramente evitando gli ostacoli, rimbalza e non si fa male, la tigre invece è spigolosa, resta ferma sulle sue posizioni e si fa travolgere dagli ostacoli permettendo che la colpissero in pieno. Così infatti fece un altro spettatore dichiarando che quel cartone era troppo violento, inadatto ai bambini.



Fu così che mi resi conto che nella pratica costante stavo applicando la filosofia mutuata alle lezioni di aikido alla vita reale e concreta che mi si rappresentava innanzi agli occhi, o meglio all'illusione dell'uomo, per parlare nei termini di quella filosofia. Non so se ci sia Zen nell'Aikido, ma sicuramente quanto apprendiamo sulla non-opposizione, sullo spogliarsi di sé stessi e sull'entrare in armonia con il modo circostante era già un mio patrimonio, preesistente, concorrente o confluente nella lezione di questo classico.



L'occidentale che studia filosofia infatti è svantaggiato alla comprensione di questo mondo per la profonda differenza tra i concetti orientali ed occidentali dell'uomo e di tutta la realtà che lo circonda. Per questo è forse giusto sorridere quando si legge che il maestro, nel tentativo di porsi dal punto di vista dell'allievo, aveva tentato di partire dalla sua formazione didattica, per condurlo verso la via, studiando i testi di filosofia che lo avevano formato e vi aveva poi rinunciato, scoraggiato: "Chi studia queste cose, non può capire!".



Il libro evidenzia correttamente come tutte le pratiche di determinate arti che secondo l'occidentale si compiono con l'applicazione fisica e quindi con il giusto utilizzo dei muscoli, nell'ottica orientale in queste condizioni sono come un cantare strillando e stonando, un suonare pestando, perché l'orientale utilizza la pratica fisica soltanto per applicare un concetto astratto. Esso è intento a forgiare dentro di sé con l'esercizio l'assimilazione di un concetto astratto del quale ha bisogno di fare esperienza.



Così, anche nell'Aikido e nell'arte della spada in genere, a cui viene dedicata una breve parte alla fine, si fa esperienza dei concetti filosofici con un'applicazione pratica. Il gesto inizia col mettere la mano in un certo modo o nell'usare i muscoli in un altro, ma quello equivale solo a preparare la tela da dipingere. Sarà il "come" si esegue la tecnica che farà la differenza.



Quando la modalità sarà del tutto "istintiva", spontanea, interiore, allora e solo allora, secondo queste filosofie si è in contatto col divino, con quelle energie cosmiche che diventano un dio da onorare. Per questo ad ogni corretta esecuzione del tiro il maestro si inchina, perché ha visto in esso quel soffio del divino che Hueshiba, fondatore dell'Aikido, vedeva nel giusto combinarsi delle energie dell'universo.

Nel testo, il maestro dice che il colpo 'si' compie come qualcosa che, create a priori tutte le condizioni necessarie, si verifica da se stesso per il combinarsi adeguato di tutte le energie della natura e dell'universo. In questo si ravvede una dimostrazione del "divino", ah, quanto diversa dalla personificazione con una volontà sovraumana!

Dello stesso concetto astratto si trovano una miriade di applicazioni pratiche che sembrano sport, guerra, arte del decorare.

E' molto significativa l'esposizione di come deve svolgere il suo ruolo il maestro con l'allievo, quella presenza solidale al cospetto dei suoi inevitabili e ripetuti errori, a patto che siano frutto dello spingersi verso la propria evoluzione e non già di un modo furbesco di evitarne gli oneri: il peso, la sofferenza, la necessità di concentrazione e parimenti di astrazione da sé, giungendo infine a rinunciare alla missione se l'allievo ricorre all'inganno.

Il maestro non è quello che conosce bene la materia come siamo abituati a concepire nelle nostre scuole: uno che è bravo a fare una cosa non necessariamente riesce a fare evolvere gli altri. Il maestro è la persona che, non perdendo mai di vista il punto dove deve giungere l'allievo gli si pone al fianco, se non dietro, per fargli da guida. Eccettuate le rare occasioni di una dimostrazione della sua arte, che il principiante tende ad imitare con sforzo fisico e quindi provando fatica, il maestro è quello che riesce a mettere in condizioni l'allievo di compiere al suo giusto tempo i suoi passi. ...E quando il risultato è frutto di una tecnica correttamente eseguita si tocca il cielo con un dito, come ad annusare il divino e, quanto meno, se non si è in grado di ripetere il gesto in quel modo, si è in grado di rendersene conto. Questa sensazione può raggiungersi se vi è satori, una sorta di intuizione che intuizione non è, un'intuizione prajna che è il tendere all'infinito, dove nell'infinito si ravvede il vuoto, lo zero, l'essere fuori da sé e quindi a contatto col divino.

Nel testo il maestro è quindi quello che oggi chiamiamo un choach che non descrive cosa si debba correttamente fare, ma che conduce l'allievo a quella condizione interna necessaria perché la sua espressione esterna sia corretta. Gli elementi sono sempre gli stessi: innanzitutto la respirazione e quello stato di assoluto che crea il "mu". Il vuoto. Mukyu in aikido è il privo di grado, in realtà il vuoto di cui stiamo parlando è disporsi come una conca da riempire. Quando si riesce a "fare il vuoto", quel soffio di "divino" viene a suggellare l'azione compiuta. L'azione è quindi frutto di una lunga ed attenta preparazione, è il compimento di un rito, come ci dice anche l'autore nella disciplina della spada, come nel tiro con l'arco, come nella espressione calligrafica, come nella disposizione dei fiori. Come non pensare che il maestro di Aikido detto Ōsensei esprima l'importanza fondamentale della preparazione al gesto,  Ōsensei deriva infatti da sen no sen: prima di prima.

Il gesto tecnico a cui ci si è preparati riesce in un lampo, prima di essere pensato, sgorga da sé laddove si agisce senza la propria parte razionale e subentra il divino.

In questo senso conosciamo il significato del "superare i propri limiti", che sono proprio l'intenzione e la volontà e del "superare se stessi", come di una propria visione del mondo.



Giulio della Valle